Mentre in passato, soprattutto da parte dei genitori, si tendeva a negare e a minimizzare etichette diagnostiche, oggi queste vengono spesso esibite e sbandierate…
Vi porto oggi la storia di Stefano un ragazzo di undici anni,dislessico.
“Io sono dislessico” afferma con decisione Stefano, la madre accanto a lui ribadisce le parole del figlio e anzi aggiunge: “Sapesse quanti vantaggi hanno i BES (Bisogni Educativi Speciali): computer, compiti ridotti, interrogazioni facilitate”. Poco prima, facendo leggere a Stefano una pagina di un libro per ragazzi della sua età ho potuto constatare che legge discretamente, con buona comprensione e che solo ogni tanto ha qualche incertezza. Molto probabilmente all’origine delle sue difficoltà c’è un apprendimento condotto con metodi sbagliati o non adatti a lui; il ritardo di lettura non molto rilevante può essere risolto con la lettura alternata fatta tutti i giorni a casa in famiglia.
Mi accorgo subito, tuttavia, che queste mie parole cadono nel vuoto: “Stefano è dislessico” lui stesso lo ribadisce e sua madre annuisce con il capo come a rimarcare l’affermazione del figlio. E’ come se l’etichetta avesse cambiato qualcosa di profondo sopratutto nella madre; il figlio è “diverso” e “per sempre”.
Interiorizzare la diversità in un modo totalizzante e farsene assertori e paladini è un fatto che colpisce (in altri tempi si preferiva nascondere, negare) ed è forse uno dei motori delle attuali epidemie di dislessia e autismo. Il disagio che segue queste diagnosi è spesso causa di una profonda alterazione emotiva nei genitori. In particolare le madri, le figure più sensibili alla salute del figlio, entrano in uno stato di ansietà se l’argomento è dislessia, anche perché sono messe sotto pressione. Una sorta di lavaggio del cervello, da messaggi provenienti da diverse fonti. D’altra parte, a favorire la trasformazione della diagnosi in etichetta ci sono gli altri genitori, le associazioni, internet, i terapisti e la scuola. Quest’ultima in molti casi è ben contenta di un’etichetta che la esenta dalle responsabilità.
L’etichetta, infatti, può essere “sbandierata” ai quattro venti nelle riunioni degli insegnanti, nelle riunioni con i rappresentanti dei genitori. E’ possibile che ci sia qualche insegnante più attento alle difficoltà di un suo allievo, ma è difficile che tale attenzione sia condivisa dalla scuola nel suo complesso che attualmente con i suoi rituali burocratici non rispetta la privacy e spesso contribuisce a rafforzare e sottolineare la diversità.
Trattandosi di un problema genetico, neurobiologico, tutto sommato non la riguarda; ci si limita ad applicare le linee guida del Ministero. Anzi, è un’ occasione per dimostrare accoglienza della classe nei confronti di un compagno ‘diverso’ e quindi dimostrare il proprio essere politicamente corretti.
Stefano, e con lui altri bambini e ragazzi, si avvia ad un destino che potrebbe evitare: quello di rimanere diverso, prima di tutto a scuola e successivamente nel mondo del lavoro, particolarmente avaro verso chi ha carenze di determinate abilità.
L’errore è quello di assumere i test psicologici come unica chiave di lettura a livello individuale e collettivo. L’abolizione delle classi speciali e differenziali ha consentito, almeno nel nostro Paese, di far uscire di scena gli aspetti più formali dell’esclusione scolastica. La diversità però, continua a presentarsi sotto forma di etichette nelle istituzioni pubbliche: sanità e scuola. Avremo così una crescente popolazione di ‘diversi’ che rischia di essere tenuta ai margini della società e del lavoro.
Poiché l’interiorizzazione dell’etichetta nella mente del ‘diverso’ e dei suoi familiari svolge un ruolo significativo nel separare e nell’emarginare, non bisogna lasciarsi condizionare dagli stereotipi e dalle facili etichettature.
Un’etichetta coinvolge l’intera persona con un effetto paradigma, fatto di pochi concetti stereotipati, e ce la mostra in una specie di specchio deformante.
Argomento tratto dall’articolo di Michele Zappella, rivista: PSICOLOGIA CONTEMPORANEA.
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