La teoria della partecipazione è importante o superflua?
Durante una puntata del mio programma in radio, una volta, un assessore molto giovane e troppo borioso mi disse «Per noi non ha importanza la teoria della partecipazione, noi siamo per il fare».
Il fare in questione era una manifestazione all’aperto per la riqualificazione di una strada del municipio organizzata in due settimane e realizzata i primi di febbraio in una domenica che fu caratterizzata da un temporale di quelli che allagano la città e vento freddo a 40 kilometri l’ora. Il risultato fu la partecipazione di una trentina persone, compresi i negozianti che guardavano incuriositi gli uomini della protezione civile “lottare” con i gazebo per impedirgli di prendere il volo. Il comunicato che l’assessore fece alla fine della giornata fu: «Manifestazione di cittadinanza attiva bella e partecipatissima…».
Il primo problema della partecipazione è nell’abuso della parola stessa, specialmente in politica. Ecco, quindi, che la “politica del fare” rischia di diventare una presa in giro delle persone che vorrebbero partecipare, mentre informarle e coinvolgerle prima che si sia presa qualsiasi decisione e accettando anche la possibilità che si decida di non fare nulla rappresenta l’importanza della teoria della partecipazione. Vediamo in che senso.
La partecipazione è un esercizio sociale che per iniziare a dare i suoi frutti deve essere praticato con costanza e ponendo attenzione ai fisiologici momenti di calo o di contraccolpo dettati dalle contingenze. Chiaramente in condizioni di emergenza diventa veramente difficile mantenere alto il livello di partecipazione e non cedere a misure decisionali meno condivise e democratiche; è bene, quindi, tenere presente che un percorso partecipativo reale non sarà mai lineare, ma subirà delle evidenti oscillazioni percepibili, in primis, da chi lo sta praticando. L’obiettivo di questo esercizio non è evitare le oscillazioni ma mantenere l’equilibrio una volta passate. Non è importante che, durante una fase critica, non si rispettino i criteri fondamentali della partecipazione, ma è fondamentale che queste fasi critiche vengano misurate da tutti i partecipanti e che vengano definiti chiaramente i punti di controllo, superati i quali, si deve riprendere la pratica partecipativa.
Come ogni esercizio, fisico o mentale che sia, maggiore è il tempo da cui lo si è iniziato a praticare e più veloci e semplici saranno i tempi di ripresa dopo una pausa forzata.
Una nazione è democratica nella misura in cui i suoi cittadini sono coinvolti, in particolare, a livello di comunità. La fiducia e la competenza per essere coinvolti devono essere acquisite progressivamente attraverso la pratica. Per questo ci dovrebbe essere un aumento graduale delle opportunità, per i bambini, di partecipare in qualsiasi aspirante democrazia e, in particolare, in quelle nazioni già convinte di essere democratiche.
Roger Hart – “Children’s participation. From tokenism to citizenship”, UNICEF, 1992, p.5
Ma allora come intraprendere questo percorso? Quali sono le tappe che ci permettono di capire in quale momento di crescita ci troviamo e se stiamo avanzando o indietreggiando? Da quando ho iniziato ad occuparmi di partecipazione nel mio campo professionale, che è quello della comunicazione, ho scoperto che quasi nessuno sa dell’esistenza di una scala di partecipazione teorizzata dalla sociologa Sherry Arnstein nel 1969 e ridefinita dieci anni dopo da Roger Hart, professore della City University di New York che ha dedicato buona parte dei suoi studi alla partecipazione dei bambini alla cittadinanza attiva, allo sviluppo sostenibile e all’educazione ambientale. Nel 1979, in occasione dell’Anno Internazionale del Bambino, insieme con alcuni studenti, Roger Hart organizza un sondaggio internazionale per approfondire quale fosse lo stato di partecipazione dei giovani nei progetti ambientali dei propri Paesi. I risultati della ricerca furono tutt’altro che positivi, per questo nel 1992 l’UNICEF gli commissiona la redazione di un saggio attraverso il quale affrontare il problema. All’interno di questo lavoro Roger Hart parte dal concetto di tokenism, che nella cultura anglosassone rappresenta tutte quelle azioni che sono il risultato di far finta di dare vantaggio ai gruppi sociali trattati ingiustamente al fine di dare l’impressione che ci sia equità, per arrivare a definire una scala che è necessario salire un gradino alla volta se si vuole arrivare al livello di partecipazione massima.
La competenza nei processi partecipativi, quindi, non può essere insegnata a livello teorico e astratto, come spesso accade, ma si acquisisce gradualmente attraverso la pratica, salendo le diverse tappe della scala a partire dal punto in cui ci si trova. Tuttavia l’importanza della teoria della partecipazione è alla base di una fondamentale verifica che si stia effettivamente praticando la partecipazione e non una sua rappresentazione fittizia.
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